"è assolutamente evidente che l'arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV"
Woody Allen

Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico.
Jean-Luc Godard

Friday, January 31, 2014

Il capitale umano


Paolo Virzì fa un salto spazio-temporale dal romanzo di Stephen Amidon (giurato al 31 Torino Film Festival) scritto nel 2005 e ambientato nel 2001 in Connecticut, al film ambientato in Brianza, vicino Milano (scelta giustificata dal regista come desiderio di accentuare ancora di più le atmosfere grigie e fredde che attorniano l'alta finanza, infatti Milano è sede della Borsa).
Fedele nella trama a Human Capital, il nodo attorno al quale si evolve la vicenda divisa in tre capitoli, che poi sarebbero tre punti di vista diversi propri dei personaggi chiave della storia, è la morte su strada di un ciclista. 
Come nel romanzo, Virzì propone il genere noir per rappresentare al meglio il ritratto della moderna umanità monetizzata e attirata dal denaro ed è proprio questo il senso del libro: osservare e analizzare come il denaro sia penetrato fino all'interno dei rapporti umani, tra ceti sociali diversi (Dino, immobiliare in cerca di ricchezza e Giovanni, broker finanziario) ma anche tra generazioni diverse (Serena, figlia di Dino, e suo padre, oppure Massimiliano e suo padre Giovanni). 
Virzì non riesce a dare degli spunti di riflessione ben definiti, confondendosi tra varie storie e vari caratteri di cui non inquadra bene il senso, non cogliendo le diverse sfaccettature che può assumere il significato di "capitale umano"; perchè non ci basta sapere che per capitale umano si intende il valore in denaro di una vita in base alle conoscenze, alle competenze e agli obiettivi raggiunti da questa, come viene ricordato a fine film.
Virzì, così ricordando, torna al punto da dove era partito, ovvero l'ingiusta morte del ciclista, il risarcimento in denaro alla famiglia della vittima e il modo affaristico con cui viene trattata la faccenda dai colpevoli, non riuscendo quindi ad amalgamare la presenza di tutti quegli altri personaggi sullo schermo e non aiutando il pubblico a cogliere un disegno più ampio celato dietro di essi. 
Certo questo evento cardine aiuta a comprendere il cinismo  dell'uomo e la sua deliberata preferenza per il guadagno e il proprio benessere piuttosto che la sua filantropia, tuttavia non dovrebbe essere trattato come l'unico aspetto sui cui concentrarci, ma come un aiuto a comprendere qualcosa che va oltre, altrimenti parrebbe che il regista operi una distinzione abbastanza infantile tra ricchi cattivi e indifferenti e poveri buoni e filantropi. In effetti i personaggi sono abbastanza stereotipati: madri ricche, superficiali e annoiate, viscidi arrampicatori sociali e uomini d'affari a cui interessano solo i soldi. 
Insomma, il capitale umano non vale solo una vita persa, ma anche tutte le altre ancora in azione (gli altri protagonisti), su cui Virzì perde l'orientamento, di certo non aiutato dal finale, che non inquadra la morale e l'unione delle storie tra loro.
Il capitale umano infatti è anche cosituito da giovani individui per i quali, per diventare futura forza-lavoro, vengono spesi costi di natura monetaria, scuole, e non, come il tempo che i genitori dedicano ai propri figli. Quest'altra definizione è molto importante per comprendere il ruolo dei giovani all'interno del film: sono loro il capitale umano, il futuro del paese, ma sembrano continuamente affossati e avvolti dall'onnipotenza genitoriale, poco capaci di delineare un loro percorso se non quello già segnato dai genitori.
L'incomunicabilità tra generazioni diverse, dovuta alla fame di denaro e alla concentrazione di tutti gli sforzi famigliari per raggiungere quest'obiettivo, porta i genitori a perdere di vista il contatto umano con i figli che devono essere cresciuti e che in realtà sono abbandonati. Infatti, come confermato dal regista stesso, ragazzi e madri sono fuori dalla sfera dell'opulenza in cui si trovano intrappolati gli uomini.
Le figure più riuscite sono quella della signora Bernaschi, simbolo della tipica depressione "da benessere", della noia, del divertissement pascaliano, ovvero l'incapacità dell'uomo di concentrarsi su stesso allontanandosi sempre più dalla sua natura e concedendosi a piaceri futili che non lo facciano ragionare; lei, desiderosa di restaurare l'unico teatro della città e la signora Ossola, psicologa, sono le uniche a volere investire sul capitale umano, aiutando i ragazzi socialmente e culturalmente. I ragazzi Massimiliano, Luca e Serena personaficano al meglio la gioventù abbandonata a se stessa priva di una vera guida, nonostante viva nel più totale benessere fisico.
Tutti questi ritratti di personaggi cristallizzati in ruoli abbastanza statici, se pur diversi tra loro, rimangono slegati, chiusi nel loro mondo, e Virzì non riesce a trovare un collante per unirli, per rendere l'idea di un mondo in conflitto con se stesso e con i suoi figli. Certo l'idea di prendere una storia e di analizzarla da tre punti di vista diversi è inusuale nel cinema italiano, tuttavia Virzì perde dei pezzi, perde il significato che vuole trasmettere. 
"Bravi, avete scommesso contro questo paese e ce l'avete fatta". I soldi scommettono contro chiunque, contro il futuro e i propri figli. Questa è la legge dei soldi, la legge del capitale denaro, non certo di quello umano.  

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