"è assolutamente evidente che l'arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV"
Woody Allen

Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico.
Jean-Luc Godard

Wednesday, September 12, 2012

Cesare deve morire


In questo docu-film dei fratelli Taviani, vincitore dell'Orso d'oro alla Berlinale 2012, i detenuti del carcere di massima sicurezza di Rebibbia, a Roma, si cimentano in un corso teatrale interpretando una tragedia liberamente ispirata al Giulio Cesare di Shakespeare. Di primo impatto il genere sotto cui è stato classificato il film potrebbe non essere chiaro a tutti oppure potrebbe portare ad un'interpretazione sbagliata del film stesso. Infatti il genere di documentario è stato attribuito per il fatto che abbiamo una regia nella regia: la prima, quella dei fratelli Taviani, si limita a riprendere in modo estremamente naturale (da documentario appunto) i momenti in cui il regista teatrale Fabio Cavalli presenta il laboratorio ai detenuti, i loro provini, il pubblico che assiste alla prima. 
La seconda regia è quella di Cavalli che si muove con pochi mezzi per il carcere e le celle, sole e uniche scenografie di gran parte del film.


Inoltre ogni detenuto viene presentato a noi spettatori attraverso la scritta in sovrimpressione del suo nome, del reato commesso e della pena quando gli viene assegnata dal regista la parte del personaggio che interpreterà.  
Il film si apre in medias res (nel mezzo degli avvenimenti), quando Bruto prega uno dei congiurati di togliergli la vita dopo che gli altri si sono rifiutati. In seguito verrà mostrato cosa è avvenuto nei sei mesi prima attraverso il classico flashback: le prove per i corridoi del carcere, i copioni, la solidarietà e le avversioni. In tutto questo frangente la pellicola è girata in bianco e nero, gli attori sono vestiti con abiti moderni e solo i bianchi muri o le inferriate delle singole celle fanno da scenografia alle prove quotidiane. 


Il contrasto principale che si cerca di far emergere, peraltro con successo, è quello tra la realtà del carcere, di chi lo vive prima di tutto come condannato, e l'immedesimazione nei personaggi e nei luoghi dell'Antica Roma, creando così una sorta di specularità tra mondo antico e mondo moderno, con continui richiami e attualizzazioni di alcuni concetti espressi nella tragedia. Tutto ciò avviene attraverso la tecnica della rottura dell'illusione scenica: mentre Cassio recita la sua battuta "Roma, città senza vergogna!", aggiunge, come soprappensiero, un suo personale commento ("Pure tu, Napoli mia, sei diventata una città senza vergogna ...") attualizzando e cogliendo anche un aspetto pessimistico della storia, cioè la sua ripetitività, il fatto che nulla cambia mai e che le situazioni di corruzione, di delazione e di odio si ripetono ciclicamente. Infatti ecco cosa dirà per giustificarsi della sua aggiunta fuori copione: "Scusi, ma a me pare che questo Shakespeare sia vissuto tra le strade della mia città".


La rottura dell'illusione scenica è molto frequente: quando l'attore di Bruto si interrompe perchè la battuta che dovrà recitare gli ricorderà la sua vita di spacciatore, quando l'attore che interpreta Cesare accuserà di falsità l'attore di Decio sulla scia delle battute che stanno recitando, quando Bruto chiederà un po' al pubblico e un po' a se stesso "Quante volte Cesare dovrà sanguinare su scene di teatro?".


Tutte le scene che in seguito porteranno alla congiura contro Cesare sono girate nel carcere a spezzoni, come se stessimo assistendo alle singole prove di ogni scena.
La parte del film che riguarda la recita in teatro vera e propria è girata a colori e narra la guerra tra Bruto e Antonio dopo l'uccisione di Cesare; per tutto il film ogni personaggio recita nel proprio dialetto d'origine.


Una volta terminata la recita i detenuti rientrano ognuno nella propria cella scortati da una guardia carceraria. 
"é da quando ho conosciuto l'arte che 'sta cella è diventata una prigione" conclude il detenuto che ha interpretato Cassio mentre prepara il suo caffè.

Scoop








Saturday, September 1, 2012

Tutto su mia madre


Pedro Almodòvar non ha lavorato solo ad un film da premio Oscar e da Golden Globe, ha fatto molto di più, ha intessuto con maestria un intreccio di storie così saggiamente studiato da sembrare del tutto naturale e realistico. Il motore principale dell'intera vicenda è la solidarietà femminile, un'unione di sentimenti contrastanti e univoci allo stesso tempo. Sebbene i temi trattati (l'Aids, la prostituzione, l'omosessualità, l'espianto degli organi) siano sempre stati visti come un gomitolo eticamente intricato sia dalla società laica che da quella religiosa, in questo caso Almodòvar riesce a tramutarli in caratteristiche proprie di ciascun personaggio, una sorta di destino che segnerà la strada di ognuno di loro per indirizzarla verso la volontà del Fato. Fato, destino, ma niente caso: sembra che i protagonisti non siano mossi dalla casualità in tutto ciò che fanno o dicono, semplicemente vivono a pieno il loro modo di essere, vivono a pieno i loro sentimenti e li condividono con chi vive accanto a loro, creando un cerchio perfetto che porrà rimedio ai fallimenti di ognuno. 
E sotto quest'ottica non ci stupisce che il lavoro di Manuela, madre di Esteban, prefigurerà il suo destino, che il suo amore per il padre del figlio, diventato poi donna, Lola, sia condiviso con Rosa, suora laica, e ciò che unirà tutti i protagonisti saranno la morte e la nascita di un medesimo simbolo, un bambino che apparterrà a tre madri (Manuela- Cecilia Roth, Rosa- Penelope Cruz e Lola).


I personaggi non temono di svelarsi al pubblico e di raccontarsi a modo loro, nella loro semplicità, senza convenzioni sociali; ciò che dicono trascende la verità umana e ce ne fornisce una universale proprio dalla bocca di chi sembrerebbe il meno adatto a presentarla.
L'ironia e la genialità di Agrado (l'amico travestito di Lola) accentuano la caratterizzazione del mondo e della psicologia femminile: "Una è autentica quanto più somiglia all'idea che ha di se stessa".
La dolcezza e il filantropismo di Rosa generano la vita e sono simbolo di maternità , l'attrice Huma per la quale Esteban ha perso la vita, rappresenta la capacità dell'uomo di redimersi e di aprirsi alla solidarietà. E ancora Lola, simbolo dell'amore di un uomo insoddisfatto  che cerca di trovare una stabilità sentimentale avvicinandosi al sesso femminile e diventando madre di un figlio morto e di un altro appena nato, Bette Davis, protagonista di Eva contro Eva, il cui titolo originale è Tutto su Eva, da cui trae ispirazione il titolo Tutto su mia madre con riferimento allo scontro tra la dualità di una stessa figura materna (Manuela e Lola, quest'ultima madre e padre nello stesso tempo) e, infine, lo spettacolo. 


Il lirismo di alcune riflessioni esplicite sull'intento finale dell'intreccio è stato abilmente inserito attraverso parti recitate sotto forma di "metacinema", cioè della rottura dell'illusione scenica in cui il protagonista si rivolge direttamente al pubblico, per non accentuare la drammatizzazione stereotipata della vicenda alla quale il regista ha voluto anteporre ironia e ottimismo.


«A Bette Davis, Gena Rowlands, Romy Schneider… A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre »

Non serve davvero null'altro se non questa chiusa del film per capire il vero significato dell'uguaglianza.

Scoop