"è assolutamente evidente che l'arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV"
Woody Allen

Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico.
Jean-Luc Godard

Monday, October 14, 2013

Sacro GRA

Come in un vero e proprio film neorealista all'italiana, Sacro GRA racconta di uno spazio di vita abitato da un'eclettica varietà umana abbracciata dal Grande Raccordo Anulare, la più grande autostrada italiana che circonda Roma e i suoi dintorni. Sembra il racconto di una civiltà parallela a quella che quotidianamente vediamo e in cui viviamo, una civiltà impegnata nei suoi rituali, chiusa in un confine quasi dimenticato, in cui la transumanza di un piccolo gregge di pecore al limite dell'autostrada, ripreso all'inizio del film, si rende protagonista e simbolo di un mondo lontano e distante dal nostro, in cui arcaicità (il pascolo) e progresso (l'autostrada) diventano i simboli di un'Italia antica, legata alla tradizione, che cerca tuttavia di farsi nuova per stare al passo coi tempi. 
Gli elementi neorealisti ci sono tutti: attori non professionisti, lavoratori, periferia e campagna, immobilità della videocamera, che riflette la staticità delle attività quotidiane... Rosi unisce gli elementi del primo e del secondo neorelismo, il documentario. E' uno stile a cui non siamo abituati, forse perchè assuefatti da un cinema d'azione ad effetto; qui i ritmi sono dilatati perchè di fatto non c'è una trama da rispettare, ma solo scorci di vita che ogni protagonista sceglie di vivere al ritmo delle proprie sensazioni e delle proprie necessità. Tuttavia Rosi sembra riuscire a dirigere abilmente i protagonisti, dando un senso documentaristico e filmico al contempo. Il regista sa bene cosa vuole rappresentare e in che modo farlo esprimere ai suoi attori, ma non rinuncia al naturale decorrere dei loro  pensieri e della loro quotidianità. 
Ecco che la storia di due ragazze immagine in un locale notturno si sussegue a quella di padre e figlia alle prese con una melanzana, che a sua volta lascia posto ad un pescatore d'anguille, poi ad uno studioso di Punteruolo Rosso, un insetto che sta distruggendo le palme italiane, poi ad un ricco Cavaliere che presta la sua villa come set per fotoromanzi e ad un infermiere sull'ambulanza in giro per l'autostrada a raccogliere le vittime della notte. 
Se il Neorealismo dell'Italia del dopoguerra aveva intenti polemici contro il regime politico ed economico dell'epoca, contro la guerra che aveva distrutto le città (infatti i film venivano girati in esterno in cui le rovine cittadine incorniciavano le storie dei loro protagonisti) e si impegnava a doumentare i cambiamenti nell'uomo e nel suo modo di agire e pensare, la voglia di riscatto, il desiderio di guardare al futuro, la frustrazione presente, qui in Sacro GRA non vediamo intenti chiaramente polemici contro l'Italia della crisi, sebbene abbia ritrovato spunti di riflessione interessanti nelle parole del pescatore d'anguille mentre legge un articolo sulla pesca ("Pensano di sapere tutto questi studiosi che non hanno mai pescato, nessuno ci chiede come stanno le cose a noi che un po' di esperienza ce l'abbiamo!") oppure in quelle dello studioso che conduce la sua battaglia personale contro il Punteruolo Rosso ("Sono una società organizzata e riusciremo a sconfiggerli solo quando saremo in grado di organizzarci bene come loro"). 
Ognuno conduce la sua vita attorno al Raccordo, svela i suoi pensieri in modo spontaneo ma guidato sempre dall'occhio vigile del regista. Forse per questa contraddizione tra la forma documentaristica in cui più comunemente annoveriamo Sacro GRA, libera per antonomasia da ogni imposizione registica, e l'effettiva presenza della direzione di Rosi dietro la telecamera, Pupi Avati (La seconda notte di nozze, Il figlio più piccolo) ha attaccato Sacro GRA come immeritevole del premio veneziano assegnato "a un documentario, antitesi di quello che dovrebbe essere quest'arte. Il Leone d'Oro è stato assegnato a un regista che non ha mai diretto un attore e questo denuncia ancora di più lo stato di crisi in cui versa la cinematografia italiana.".  
Di certo si tratta di una Roma diversa da quella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino; se quest'ultimo è riuscito a descrivere abilmente l'apertura della città al mondo, una Roma che chiede di essere vissuta in pieno a discapito del lento ritmo con cui i pensieri dei suoi protagonisti vanno maturando, Rosi preferisce descrivere un paesaggio bucolico, chiuso, impenetrabile, in cui i protagonisti vivono i loro pensieri senza entrare a contatto con altri diversi, quasi come in una novella Aci Trezza verghiana. 
Si tratta sempre di Roma, ma in entrambi i casi siamo noi a dovere decidere da quale punto di vista ci sentiamo più rappresentati. Il gregge di ritorno al pascolo all'imbrunire alla fine del film conferisce anularità e maggiore senso di chiusura rispetto ad un piccolo mondo che rimarrà per sempre isolato.


 

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