"è assolutamente evidente che l'arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV"
Woody Allen

Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico.
Jean-Luc Godard

Tuesday, December 31, 2013

La mafia uccide solo d'estate

E' difficile raccontare attraverso una macchina da presa eventi drammatici, sia personali che storici, senza scadere nella banalità o nel patetico (come oggi, al contrario, si usa fare perchè non ci sono poi tanti contenuti da trasmettere, sia nel cinema che in TV); così facendo regista e pubblico finirebbero per non vedere l'evento con sguardo critico, ma rimarrebbero avvolti da un'iniqua coltre di sentimentalismo che non li aiuterebbe a comprendere, paradossalmente, nemmeno i sentimenti di chi davvero li ha vissuti.
Ecco che il primo film di Pif riesce a superare tale ostacolo, come molti prima di lui: La scelta di Sophie (Pakula), La vita è bella (Benigni), Gomorra (Garrone), Il caso Mattei (Rosi) e tanti altri. C'è chi racconta la tragedia sotto forma di documentario, come Garrone o Rosi, chi tramite un film drammatico ma mai patetico (Pakula) e chi preferisce la commedia, come Benigni e Pif.
L'inizio e la fine del film sono riprese documentate tramite handycam dal protagonista in persona, sullo stesso stile su cui Pif ha imbastito il suo programma televisivo Il Testimone, delle puntate basate su interviste e sopralluoghi effettutati in prima persona con una semplice telecamera a mano.
Il corpo del film, invece, è girato ordinariamente con l'efficace intermezzo di filmati veri dell'epoca che contribuiscono a rendere ancora più realistica l'ambientazione della storia di Arturo in una Palermo che, insieme al percorso di crescita del suo protagonista, è contrassegnata da continui attentati mafiosi tra gli anni '80 e '90
L'idea di immaginare come un bambino potesse avere vissuto tutto il suo percorso di formazione in quegli anni bui della storia italiana, rende il film originale e imperniato di vero realismo; come un novello Rosso Malpelo verghiano, anche Arturo dovrà confrontarsi con i suoi eroi e i suoi antieroi, con la mentalità degli adulti, imparando a cambiare ideali e sperimentando in prima persona l'ipocrisia e la poca limpidezza che contrassegnano il mondo dei "grandi".
E' un racconto di formazione dentro la storia e la cultura palermitana. 
La storia d'amore con Flora è abbastanza scontata, ma è il motore che fa progredire il film: ogni azione di Arturo (al fine di conquistare quasi sempre Flora) si mescola casualmente con un'azione mafiosa che contrasta sempre i suoi piani (ad esempio l'esplosione del bar in cui è solito comprare ogni giorno un dolce per Flora). E' proprio in questo modo che Arturo viene a contatto diretto con il mondo del crimine organizzato, attraverso degli eventi che riguardano la sua vita e il suo piccolo mondo di bambino, coinvolgendolo così in prima persona e determinando i suoi successi ed insuccessi amorosi.
Il secondo motore che lo spinge a partecipare attivamente alla storia a lui contemporanea è la sua passione per Andreotti, allora Presidente del Consiglio: anche lui da giovane aveva avuto gli stessi problemi di Arturo nel conquistare una ragazza, perciò chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarlo?
E da questa banale osservazione, Arturo maturerà ben presto una consapevolezza nuova e adulta avendo la fortuna di intervistare il giudice Falcone per un concorso scolastico. 
Originale ed emblatica l'idea da cui deriva il titolo: Arturo si accorge che i grandi tendono a non parlare degli eventi mafiosi, fanno finta che il problema non si pone, e proprio da questo silenzio, figlio dell'indifferenza, maturano alcune domande ingenue ma pertinenti: "La mafia ucciderà anche noi?" "Tranquillo, ora siamo in inverno; la mafia uccide solo d'estate".
Alcune scene sono ben congeniali al significato del film, come quando Arturo va al comizio di Andreotti, o quando intervista Falcone, oppure quando nel finale porta il figlio in giro per le vie di Palermo dove vengono ricordate le vittime della mafia (questa scena riprende in pieno i canoni stilistici de Il Testimone). 
Ne La mafia uccide solo d'estate non conta tanto la forma, nè il montaggio, nè la cura stilistica delle riprese, nè la colonna sonora (tutti questi elementi riecheggiano lo stile delle serie televisive); contano i contenuti e la tessitura della trama, l'idea di come la quotidianità di un bambino si intrecci alla quotidianità del mondo e della storia e come da essa venga influenzata. Questo è ciò che lo rende unico. 
Applausi a fine film in tutte le sale italiane.


 

Wednesday, December 25, 2013

Merry Christmas!
Merry Christmas to everybody, dear readers! This year, I want to rediscover with you old film productions belonging to experiments made by filmmakers, from around the world, who first began to use the camera. In particular, I want to show you short christmas film shot during the early years of the XIX century.
So we can start with Le reve de Noel by Georges Méliès (1900). Some children go to sleep and dreams overcome their minds.





The little match seller, directed by James Williamson in 1902, is based on a novel by Hans Christian Andersen.




Another interesting short film comes from Russia: The night before Christmas was shot in 1913 by Wladyslaw Starewicz. He was a stop-motion animator and he also used insects and animals as protagonists of his films. This short film is based on the tale of the same name by Nikolaj Gogol, but the plot is close to Gogol's classic tale. The action is set in a Cossack stanitsa. On Christmas Eve, a minor demon arrives to a local witch called Solokha. Their trick will involve two lovers.

                                         


                                                                    












































                                                                     






 















 Finally, here is the classic and famous A Christmas Carol (1910) by J. Searle Dawley, based on the Charles Dickens' novel. 



What do you think about?  Is it a beautiful gift for you?
Cheers and love,  
Cinema liquido.

Thursday, December 5, 2013

SUPER 8
Uniamo gli anni '70 e '80, tanto amati da J.J. Abrams in quanto hanno fatto da sfondo alla sua giovinezza e hanno influenzato il suo modo di "fare fantascienza", con i lavori degli anni '70 di Steven Spielberg (produttore di Super 8) E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo, con le atmosfere cupe e misteriose di Lost e Alias (serie televisive di gramde successo da lui ideate e che rimandano alla filosofia di Abrams della Mistery Box, ovvero mistero su mistero su mistero per coinvolgere al massimo il pubblico) e con alcune scelte stilistiche già sperimentate in passato e che sono diventate la firma del regista, i lens flare, cioè i bagliori di luce: tutto questo è Super 8.
L'originalità del film è racchiusa nella prima parte, quella che precede e comprende il misterioso incidente di un treno che deraglia mentre un gruppo di amici pre adolesenti sta girando un film sugli zombie (dettaglio autobiografico del regista). Numerosi sono i rimandi alla giovinezza del regista e ai film di Spielberg in cui i protagonisti sono ragazzini con le loro biciclette, costretti a nascondersi dal corpo militare.
Tuttavia se nei film di Spielberg le creature extraterrestri sono amichevoli, in questo caso J.J. Abrams crea una creatura più vicina a quella di District 9 (2009) e ne abbraccia anche il tema di fondo, la diversità: come gli alieni di District 9 anche il mostro scappato dall'Area 51 e continuamente braccato dalla US Air Force è costretto a vivere sotto terra, incompreso, torturato, affamato, desideroso di ritornare a casa. 

In entrambi i film, e soprattutto in District 9 dove gli alieni vengono segregati in campi profughi sotto regime di apartheid, è forte il tema del razzismo e della paura di fronte al "diverso" da noi. 
Super 8 riesce bene a integrare gli elementi della fantascienza anni '70 con quelli del genere attualizzato, conferendo alla pellicola uno spirito e un taglio personale a partire dalla buona recitazione dei giovani attori fino ad arrivare alle atmosfere da Mistery Box che più gli sono congeniali. 
Il film si perde e cade nel già visto al momento dello scioglimento della vicenda e del finale (alla fine l'alieno si accorge dell'animo puro del coraggioso Joseph e decide di risparmiarlo). Super 8 ha l'ambizione di essere un film d'autore, ma anche se non può essere definito tale, è una buona prova stilistica e un utile compendio di vari elementi che dagli anni '70 ad oggi si sono susseguiti per rendere ancora più ricco di aspettative il genere fantascientifico.
 

 

Monday, November 18, 2013

Miss Violence

Il titolo personificato è più che valido, perchè tutto ciò che ruota attorno alla famiglia di Angeliki, che il giorno del suo undicesimo compleanno decide di buttarsi dal balcone di casa, è dettato dalla violenza nei pensieri, nelle parole, nelle opere e nelle omissioni. Tralasciamo la Coppa Volpi e il Leone d'Argento vinti dal regista Alexandros Avranas al Festival di Venezia 2013 per concentrarci su molteplici aspetti discussi e discutibili di quest'opera seconda del regista greco. Alcuni hanno visto riflesso in questo film lo specchio della crisi economica che sta colpendo gravemente la Grecia; personalmente non scorgo la volontà di Avranas nel volere accennare specificamente al tema economico e politico, anche se sappiamo bene che ad una decadenza economico-sociale ne corrisponde una dei costumi morali, a causa della quale la fame di soldi e di sostentamento può portare le persone a compiere azioni socialmente inaccettabili (furto, omicidi, prostituzione).
Avranas dichiara: "Il film è tratto da una storia reale accaduta in Germania, tre volte più dura. Il cinema ha il dovere di rappresentare queste vicende, ma non può esagerare con la violenza, per evitare che lo spettatore abbia una reazione di chiusura e rifiuto nei confronti della storia".
Il regista ha rispettato in parte questa sua dichiarazione. Se da una parte ha trattato sapientemente un tema così scabroso, per quasi tutto il film, con l'inserimento di metafore e silenzi coadiuvati dalle capacità interpretative degli attori, dall'altra non ha potuto fare a meno di gelare il pubblico con un'ultima doccia fredda di immagini cruente. Purtroppo questa sua scelta si è allontanata dai presupposti da cui era partito, ovvero quella di non esagerare con la violenza, al punto da provocare nel pubblico la reazione indesiderata di rifiuto. 
Questa è stata la pecca fondamentale del film, in quanto si sta parlando di una vera e propria tragedia edipica! Il pater familias ha abituato moglie, figlie e nipoti al regime del terrore, all'umiliazione, all'apatia, alla rassegnazione. In più all'inizio i ruoli parentali non sono ben definiti, non riusciamo subito a comprendere chi sia il padre, chi la madre, chi i figli di chi, se la più anziana del gruppo sia la nonna vedova: ciò testimonia l'intreccio e l'inganno in cui la famiglia è costretta a vivere. 
Torpore, ipocrisia e silenzio aleggiano in una famiglia che non può essere definita tale, semmai un covo di povertà morale da parte di chi tacce pur sapendo. La rassegnazione di tutti i protagonisti, meno che del pater-nonno, dà fastidio al pubblico, che trova patetico e inaccettabile il comportamento di timore reverenziale degli altri nei confronti del loro carnefice. 
Eppure se fin da bambino un individuo è educato all'obbedienza e al silenzio in un ambiente chiuso, privo di stimoli e senza un confronto esterno, egli non potrà che considerare accettabile e normale tale condizione inflittagli.
Le scelte stilistiche che più si confanno al clima di rigidità e freddezza che vuole adottare Avranas sono l'assenza di colonna sonora (vi sono solo i rumori di tv e stereo e di un inquietante e assai metaforico urlo di scimmie proveniente da un documentario amato dalla mater), il duplice atteggiamento del pater, remissivo e docile a lavoro, ossessivo e ipocrita in famiglia, determinato a portare a termine i suoi sporchi affari seppellendo a malincuore il ricordo di una vittima che non ha fatto in tempo a sfruttare.
Infine interessante è la metafora della porta: porte che si aprono e si chiudono, porte grigie, porte che non si aprono del tutto, porte e muri che coprono scene e altre che vengono smontate per fare finta che "nessuno ha da nascondere nulla in questa famiglia", quando in realtà ci mettono davanti ad una realtà insopportabile. La porta avrà un ruolo fondamentale anche nella chiusa del film, volontariamente ambigua: "Il finale è a doppio senso" spiega Avranas: "Se nessuno decide di porre fine a questo circolo di violenza, esso continuerà". Ma il finale può essere aperto a libera interpretazione: una porta che si chiude per non lasciare uscire Miss Violence da quelle mura domestiche o per seppellirla insieme a quella famiglia ormai condannata, in modo da non contaminare il resto del mondo.
Purtroppo la scelta discutibile adottata dal regista nell'inserire sequenze che avrebbe potuto risparmiare a beneficio del pubblico, già sconvolto di suo, testimonia una fastidiosa usanza che sta dilagando a macchia d'olio in tanti film in concorso, partendo da Cannes 2013, le cui opere hanno destato clamore e sdegno per le frequenti scene da censura presentate in quasi tutti i film in concorso. 
Come ci dimostrano i grandi registi del passato alle prese con temi scabrosi che il cinema, giustamente, non deve ignorare se vuole adempiere alla funzione sociale che gli compete, un film che lascia il segno non deve scadere nella banalità, ma deve raccontare in maniera originale il realismo e la tragedia. Già Aristotele nella Poetica rifiutava l'opsis, ovvero il fatto che una rappresentazione, per fare paura, dovesse ricorrere ad una messa in scena cruenta: per lui quella era una forma poco nobile di rappresentazione che denotava poche capacità nel tragediografo.
Oggi potremmo dire lo stesso dei registi che hanno trattato temi scabrosi (come la pedofilia) senza ricorrere all'opsis: Kubrick in Lolita, Fritz Lang ne M-Il mostro di Dusseldorf, Shanley ne Il dubbio, Mikkelsen ne Il sospetto, solo per citarne alcuni.
 










Monday, November 4, 2013

GRAVITY

I ricercatori della NASA hanno dichiarato che il film commette delle pecche per quanto riguarda la riproduzione degli eventi che si verificano durante una missione spaziale e gli strumenti che vengono utilizzati per fare fronte ad alcuni problemi (a partire dal salvifico jetpack di George Clooney).
Ma per Alfonso Cuaròn (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, 2003, I figli degli uomini, 2007) queste incongruenze non hanno un vero peso sul significato del film, che esula dalla fantascienza vera e propria di Mission to Mars di Brian de Palma, per approdare sul versante drammatico di una metafora sul trauma del parto e del "venire al mondo". 
Questa qui a fianco è solo una delle tante scene (come anche quella finale quando Ryan, con difficoltà, esce dall'acqua esausta e cerca di camminare sulla sabbia) che hanno chiaro intento simbolico di rinascita. Lo spazio è un luogo totalmente diverso dalla Terra, sia per l'atmosfera che per l'assenza di gravità, proprio come il grembo materno e l'ambiente esterno in cui dovrà adattarsi il bambino dopo nove mesi passati in un posto fuori dal tempo. Anche gli astronauti di Cuaròn vivono in un universo in cui il silenzio, i colori, la luce, l'improvvisa dicotomia tra lentezza dei movimenti e infinito movimento sono in netto contrasto con le leggi terrestri a cui la Dottoressa Ryan dovrà riabituarsi cercando di tenersi in piedi sulla terraferma. 
Cuaròn ha dato vita ad un'idea originale, ossia l'immagine della vita come un insieme di centri concentrici: dall'universo creatore della Terra, alla Terra creatrice di vite, all'uomo desideroso di riscoprire le sue radici andando a ritroso nello spazio, sperando di ritrovare in esso un conforto materno profondo che è stato abbandonato al momento del parto. Tuttavia non è più il tempo per un viaggio à rebours alla Huysmans, di evasione dai dolori personali (la morte della figlia di Ryan): è il momento di maturare per essere pronti ad affrontare la vita là fuori (ma in questo caso, data la vastità dell'universo, dovremmo dire là dentro, sulla Terra!). 
E' questo ciò che Kowalsky lascia a Ryan, il giusto coraggio per continuare il ciclo della vita. Ryan si trova totalmente sola nell'affrontare il ritorno sulla Terra: non sa cosa l'aspetta, proprio come un bambino che deve nascere. Le uniche occasioni di contatto col mondo "esterno" sono dei casuali contatti radio con un uomo orientale che imita i versi del suo cane insieme a Ryan, ormai senza speranze.
Simile alla metafora kubrickiana di 2001: Odissea nello spazio, lontano da scenari ed esseri immaginari come in Mission to Mars, Gravity assimila i pregi di una tradizione cinematografica fantascientifica americana con alcuni luoghi comuni e catastrofisti altrettanto americani. Ancora più originale è il lavoro meno noto di Cuaròn, I figli degli uomini, che non ha nulla da invidiare a Gravity per il grado di tensione che riesce a suscitare!
 







Monday, October 14, 2013

Sacro GRA

Come in un vero e proprio film neorealista all'italiana, Sacro GRA racconta di uno spazio di vita abitato da un'eclettica varietà umana abbracciata dal Grande Raccordo Anulare, la più grande autostrada italiana che circonda Roma e i suoi dintorni. Sembra il racconto di una civiltà parallela a quella che quotidianamente vediamo e in cui viviamo, una civiltà impegnata nei suoi rituali, chiusa in un confine quasi dimenticato, in cui la transumanza di un piccolo gregge di pecore al limite dell'autostrada, ripreso all'inizio del film, si rende protagonista e simbolo di un mondo lontano e distante dal nostro, in cui arcaicità (il pascolo) e progresso (l'autostrada) diventano i simboli di un'Italia antica, legata alla tradizione, che cerca tuttavia di farsi nuova per stare al passo coi tempi. 
Gli elementi neorealisti ci sono tutti: attori non professionisti, lavoratori, periferia e campagna, immobilità della videocamera, che riflette la staticità delle attività quotidiane... Rosi unisce gli elementi del primo e del secondo neorelismo, il documentario. E' uno stile a cui non siamo abituati, forse perchè assuefatti da un cinema d'azione ad effetto; qui i ritmi sono dilatati perchè di fatto non c'è una trama da rispettare, ma solo scorci di vita che ogni protagonista sceglie di vivere al ritmo delle proprie sensazioni e delle proprie necessità. Tuttavia Rosi sembra riuscire a dirigere abilmente i protagonisti, dando un senso documentaristico e filmico al contempo. Il regista sa bene cosa vuole rappresentare e in che modo farlo esprimere ai suoi attori, ma non rinuncia al naturale decorrere dei loro  pensieri e della loro quotidianità. 
Ecco che la storia di due ragazze immagine in un locale notturno si sussegue a quella di padre e figlia alle prese con una melanzana, che a sua volta lascia posto ad un pescatore d'anguille, poi ad uno studioso di Punteruolo Rosso, un insetto che sta distruggendo le palme italiane, poi ad un ricco Cavaliere che presta la sua villa come set per fotoromanzi e ad un infermiere sull'ambulanza in giro per l'autostrada a raccogliere le vittime della notte. 
Se il Neorealismo dell'Italia del dopoguerra aveva intenti polemici contro il regime politico ed economico dell'epoca, contro la guerra che aveva distrutto le città (infatti i film venivano girati in esterno in cui le rovine cittadine incorniciavano le storie dei loro protagonisti) e si impegnava a doumentare i cambiamenti nell'uomo e nel suo modo di agire e pensare, la voglia di riscatto, il desiderio di guardare al futuro, la frustrazione presente, qui in Sacro GRA non vediamo intenti chiaramente polemici contro l'Italia della crisi, sebbene abbia ritrovato spunti di riflessione interessanti nelle parole del pescatore d'anguille mentre legge un articolo sulla pesca ("Pensano di sapere tutto questi studiosi che non hanno mai pescato, nessuno ci chiede come stanno le cose a noi che un po' di esperienza ce l'abbiamo!") oppure in quelle dello studioso che conduce la sua battaglia personale contro il Punteruolo Rosso ("Sono una società organizzata e riusciremo a sconfiggerli solo quando saremo in grado di organizzarci bene come loro"). 
Ognuno conduce la sua vita attorno al Raccordo, svela i suoi pensieri in modo spontaneo ma guidato sempre dall'occhio vigile del regista. Forse per questa contraddizione tra la forma documentaristica in cui più comunemente annoveriamo Sacro GRA, libera per antonomasia da ogni imposizione registica, e l'effettiva presenza della direzione di Rosi dietro la telecamera, Pupi Avati (La seconda notte di nozze, Il figlio più piccolo) ha attaccato Sacro GRA come immeritevole del premio veneziano assegnato "a un documentario, antitesi di quello che dovrebbe essere quest'arte. Il Leone d'Oro è stato assegnato a un regista che non ha mai diretto un attore e questo denuncia ancora di più lo stato di crisi in cui versa la cinematografia italiana.".  
Di certo si tratta di una Roma diversa da quella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino; se quest'ultimo è riuscito a descrivere abilmente l'apertura della città al mondo, una Roma che chiede di essere vissuta in pieno a discapito del lento ritmo con cui i pensieri dei suoi protagonisti vanno maturando, Rosi preferisce descrivere un paesaggio bucolico, chiuso, impenetrabile, in cui i protagonisti vivono i loro pensieri senza entrare a contatto con altri diversi, quasi come in una novella Aci Trezza verghiana. 
Si tratta sempre di Roma, ma in entrambi i casi siamo noi a dovere decidere da quale punto di vista ci sentiamo più rappresentati. Il gregge di ritorno al pascolo all'imbrunire alla fine del film conferisce anularità e maggiore senso di chiusura rispetto ad un piccolo mondo che rimarrà per sempre isolato.


 

Monday, October 7, 2013

The Bling Ring
(Recensione scelta da Paperblog)

Non far caso a quello che dico quando sono insieme ai compagni. Nessuno... nessuno di noi è sincero.(Gioventù bruciata, Nicholas Ray)
Quanti ragazzi ribelli abbiamo visto protagonisti al cinema? Quanti ragazzi in lotta per ricercare una propria identità unica e irripetibile abbiamo visto trasgredire alle imposizioni genitoriali che non ammettevano repliche? Il fenomeno adolescenziale delle baby gang, ora anche al femminile, c'è sempre stato, soprattutto con l'inizio di un'epoca di benessere che ha fatto seguito alle due Grandi Guerre, dagli anni '50 in poi. 
Possiamo pensare ai cult movie come Gioventù bruciata, in cui l'idolatrato James Dean, in piena crisi esistenziale, chiede disperatamente spiegazioni a quel mondo adulto di cui presto farà parte, ma che si trova in contraddizione con gli ipocriti ideali di cui falsamente si fa portatore; infatti quando Jim deciderà di costituirsi per l'omicidio colposo di un suo coetaneo, madre e padre si opporranno mandando in crisi il giovane ragazzo: "Papà, non mi hai sempre detto di dire la verità? Perfavore, almeno tu non puoi rimangiarti quello che mi hai insegnato".
Foxfire è il film del 2013 di Laurent Cantet tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates Ragazze cattive: nel 1955 un gruppo di ragazze decide di ribellarsi al maschilismo imperante e di rendersi libere da ogni imposizione sociale, anche lottando con la violenza. Ciò che le ispira nelle loro rivoluzioni sono i discorsi di un vecchio prete che ha vissuto la guerra.
Poi è il turno di Dead Poets Society (L'attimo fuggente) dell'89; anche qui il gruppo di studenti di un college privato stipula un patto di sangue per sentirsi libero da famiglie ottuse e da un'educazione scolastica deprimente e conformista. 
In quest'occasione è il professore di lettere il simbolo della loro ribellione. Nel 2011, tratto da una storia vera, approdano sul grande schermo le 11 Ragazze che hanno fatto scalpore in Francia, quando hanno deciso di rimanere incinte tutte insieme come protesta contro il mondo degli adulti.
Nel 2013 creano scandalo le Spring Breakers americane di Harmony Korinealle prese con la festa di primavera: tra droga, musiche di Britney Spears, discoteche, soldi, pistole e una buona dose ostentazione del sesso, le giovani protagoniste si ribellano in nome del puro divertimento.
In The Bling Ring (la cricca dei gioielli) Sofia Coppola ci racconta di una ribellione all'insegna del mito e della fama. Tratto da un fatto realmente accaduto nel 2008 a Los Angeles, dove il gruppo Bling Ring, formato da ragazzi e ragazze di famiglie ricche, ha svaligiato le case di alcune celebrities, Paris Hilton e Orlando Bloom per citarne alcune, ricavandone tre milioni di dollari in beni di lusso. Questa non deve sembrarci una realtà troppo lontana, dato che negli utlimi tempi anche in Italia sono state segnalate bande di giovani italiani benestanti che rubavano ai loro coetanei. 
Forse dovremmo pensare che film come Spring Breakers, e ancora più The Bling Ring sia per superiorità registica che di scelte stilistiche, rappresentino le novelle gioventù bruciate del XXI secolo?
Questi film hanno suscitato reazioni controverse: chi li considera portatori di una realtà edulcorata e superficiale, chi invece li vede come testimonianza del declino sociale. Come Gioventù bruciata si faceva portavoce della decadenza giovanile degli anni '50, così The Bling Ring denuncia una gioventù vuota e annullata da tutto ciò che le gira attorno, i cui valori sono nettamente cambiati da quelli che spingevano le vecchie generazioni alla rivoluzione. In The Bling Ring, infatti, non c'è rivoluzione, ma ribellione dei costumi, una ribellione finalizzata non ad una crescita verso l'età adulta, ma ad un diventare adulti nell'aspetto. Se Gioventù bruciata a suo tempo fece luce sulla disperazione dei ragazzi di non essere abbastanza per il mondo degli adulti, mondo che, come tutti gli adolescenti, rinnegano e desiderano allo stesso tempo, così oggi la stessa paura di inadeguatezza attanaglia i ragazzi del 2000, alla ricerca di idoli che suscitino il consenso generale della folla e che stiano al passo con i tempi che cambiano frettolosamente. 
Come l'immigrazione, la dipendenza, la disoccupazione, anche le trasgressioni giovanili sono un importante tema sociale che spesse volte viene sottovalutato o accettato come qualcosa di normale che fanno tutti i giovani.
Sofia Coppola ci dice, anzi, ci favedere senza filtri personali, una gioventù che vive sui social network, che mira alla fama sul web raggiungendo il maggior numero di amicizie ("Lo facevamo perchè tutti ci seguivano e ci chiedevano l'amicizia... alcune le ho accettate senza nemmeno guardarle"). Perchè ci stupiamo o consideriamo banale un fenomeno di cui tutti, chi più e chi meno, siamo vittime? 
Chi non posta le sue foto sulle piattaforme multimediali a cui è iscritto, chi non va in discoteca il sabato sera e il giorno dopo, orgoglioso, documenta il tutto sui social? Quanti ragazzi e ragazze di tutte le età non ascoltano la musica trasgressiva dei loro idoli alla moda, scimmiottandone azioni e atteggiamenti, soprattutto se si tratta di ragazzi di L.A. o di Hollywood che vivono costantemente a stretto contatto con tali celebrità? 
Se già nell'età adolescenziale si viene influenzati molto dal gruppo di amici, come potrebbe non essere lo stesso in un ambiente in cui vivono i propri miti? Sofia Coppola ci mostra i meccanismi del branco, dell'arrivismo degli adulti trasporto su dei ragazzini che giocano a fare gli adulti puntando alla vetta come tutti i "grandi" del globo ("Loro hanno soldi e fama, chi non verrebbe avere la loro stessa vita?"). 
Se la società ci fa credere che il massimo a cui si possa aspirare è la popolarità, possiamo ben comprendere perchè Rebecca sia così ossessionata dalla figura di Lindsay Lohan; la scena chiave è il rallenty di quando, davanti allo specchio a casa della sua icona preferita, Rebecca si spruzza al collo il suo profumo, assaporando l'estasi del momento, oppure quando chiede che cosa ha detto Lindsay dell'arresto ( "E Lindsay cos'ha detto?"). Dichiarazioni come quella di Rebecca o quelle di Nicki rilasciate alla rivista "Vanity Fair" e ad un talk show americano, come anche tutte le azioni dei protagonisti, sono stati riportati fedelmente dalla regista dopo avere letto le interviste del 2008. 
Come anche in Marie Antoniette, Sofia Coppola ci descrive con ironia e stile gli eccessi di due epoche diverse, facendo buon uso degli elementi a disposizione che caratterizzano ogni epoca; in The Bling Ring la forma del documentario è presente attraverso l'intervento registico diretto dei protagonisti, come se fossero loro stessi e non un mediatore (il regista) a creare la loro storia e la loro personalità.
Anche per questo c'è una scarsa caratterizzazione dei personaggi, perchè essi sono davvero come si presentano, tutto quello che hanno ce lo mostrano per un'ora e mezza, non c'è nient'altro da aggiungere a quello che ci fanno vedere. I selfie (le foto autoritratto), i found footage delle celebrities che scorrono sullo schermo, le scene girate davanti ad una webcam a bassa definizione, questi sono i mezzi documentaristici con cui i ragazzi vogliono descriversi e farsi notare dai loro coetanei. La musica non è il sottofondo musicale delle loro vite (come non lo è nella realtà che vive ognuno di noi), ma solo quello del divertimento in discoteca; attraverso la musica concitata riescono a perdere ogni controllo e ad ostentare una nuova personalità. 
Non dobbiamo nemmeno stupirci se la madre di Nicki, che nella realtà è stata un'ex coniglietta Playboy, cresca le figlie attraverso educazione famigliare insegnando loro la filosofia di The Secret, un libro di Rhonda Byrne, ovvero come convogliare l'energia in un obiettivo (prendendo Angelina Jolie come esempio). 
Ecco perchè Nicki è così determinata a cogliere qualsiasi occasione per farsi pubblicità, anche nei talk show (Emma Watson interpreta quelle che sono state le vere parole della ragazza accusata: "E' dura quando ti svegliano ogni giorno alle 5.30...Appena è stato pubblicato il video mi sono messa in contatto col suo manager (della Lohan) per dirle che sapevo chi era stato! Potevano pensare che avessi rubato io! Ad ogni modo se volete sapere tutta la vertià su di me andata sul mio sito!").
Sono ragazzi che tentano di raggiungere lo status del loro gruppo di riferimento, fatto di miti passeggeri, che si sentono a disagio nelle loro normali case, ma che adorano passeggiare nel lusso dei loro eroi. Sofia Coppola cerca di dare un tocco personale ad un ambiente giovanile monotono attraverso l'uso della musica, del documentario, del rallenty, della telecamera fissa, come nel caso del lungo piano sequenza della casa in cui Marc e Rebecca vanno a rubare.
The Bling Ring è un lucido sguardo su un circolo vizioso che ha come protagonisti ragazzi a cui viene data poca linfa vitale per crescere.



Friday, September 27, 2013

A Life In A Day

Vai nelle pagine "News" e "Documentaries" di Cinema liquido per saperne di più!
Siate registi per l'Italia insieme a Gabriele Salvatores!

Thursday, September 26, 2013

Eraserhead

 1976. Il primo lungometraggio di David Lynch è stata un'opera fortemente desiderata, al punto che il regista, costretto ad interrompere le riprese per quattro anni per mancanza di budget e spinto da padre e fratello a trovare un lavoro che gli permettesse di mantenere la figlia, si adoperò in tanti piccoli impieghi pur di rimpinguare il budget destinato al film.
Lo stesso Lynch dichiarò, una volta utlimato il lavoro, di non riuscire a trovare un senso alle scene girate, quando alla fine fu illuminato dalla lettura di una frase della Bibbia (che non rivelerà mai). I rumori di sottofondo di una periferia industrializzata, una giovane coppia, un mostruoso neonato, creature aliene, delirio, incoerenza: questo è Eraserhead (La mente che cancella).
Quando si entra nel mondo di Lynch bisogna mettere da parte ritmi narrativi e coerenza strutturale; Lynch ci porta ad esplorare l'uomo e la sua mente, l'uomo e la sua anima, l'uomo e le sue paure. E' emozionante il mondo del vero cinema, quello che ha da dire mille cose, mille verità e punti di vista diversi e solo occhi e orecchie per riuscire nel suo intento; ogni regista coglie una verità sul mondo umano che va a raffigurare. Woody Allen mette in scena un uomo irrazionale, quasi bohémien, che cerca la libertà di poter vivere a suo piacimento, ma che in qualche modo è imprigionato da una sorte più potente della sua volontà; Nanni Moretti trae significati paradossali da piccoli gesti quotidinai che ognuno di noi potrebbe compiere, mettendo in discussione il concetto di "normalità".
David Lynch si concentra sull'inconscio umano, sulle sue pulsioni e paure regresse, come un moderno Freud.
Eraserhead è il cult movie che dimostrò come l'ossessione possa diventare arte. L'unico tema che può dare un senso a temi apparentemente incoerenti è il sogno. Lynch segue il flusso dell'inconscio che si manifesta a danno del conscio: una persona cosciente in stato di veglia tiene a freno l'inconscio che può liberarsi solo quando la persona abbassa le difese consce, mentre dorme ad esempio. 
Ecco che in quest'occasione affiorano nei sogni tutti quei pensieri che in stato di veglia verrebbero censurati, secondo Feud, perchè insopportabili per la parte razionale dell'uomo; tuttavia spesse volte la censura non riesce a camuffare le irrazionalità umane e perciò il sogno diventa incubo. Infatti nel film l'ambiente esterno in cui agiscono i personaggi riflette il loro stato interiore di paura ed incertezza.
Nel film l'irrazionalità inconscia che porta il protagonista in un turbinio di eventi onirici è personificata da un uomo mostruoso che compare all'inizio e alla fine del film per conferire anularità ai deliri di Henry e essendo loro fautore.
Esseri mostruosi possono essere ritrovati nei vermi che Henry trova nel suo letto (che riprendono Il demone sotto la pelle di Cronenberg del '75), oppure dagli stessi attori: Mary epilettica e la madre ninfomane. Il sangue che esce dal pollo arrosto ricorda le tinte drammatiche di The Grandmother, cortometraggio di Lynch realizzato nel '70, mentre il bambino con la testa di coniglio scuoiato ricorda l'infante frutto di un'incubo infernale che ha la protagonista Rosemary in Rosemary's Baby, film di Polanski del '68.
Alcuni hanno visto in Eraserhead il richiamo ad una metafora cosmica: il cordone imbelicale all'inizio del film unisce il pianeta da cui proviene la creatura con il mondo umano, come se legasse l'inconscio alla realtà.
Come in Rabbits e Dumbland, cortometraggi del 2002, le atmosfere di Eraserhead richiamano quelle del cosiddetto "Teatrino del perturbante": concetto freudiano sviluppato ancora prima dallo scrittore gotico E.T.A. Hoffmann, perturbante è tutto ciò che sembra famigliare e allo stesso tempo estraneo e quindi generante paura ed angoscia. Ad esempio in una ricerca dello studioso di robotica Mori i robot generavano simpatia negli astanti, ma man mano che assumevano fattezze sempre più antropomorfizzate, le reazioni emotive positive cominciavano a calare per lasciare spazio all'angoscia. Anche nel lungometraggio la presenza di elementi quotidiani (una coppia, una stanza, una cena di famiglia) genera all'inizio sicurezza e poi pericolosità.
Eraserhead rappresenta la prima fase evolutiva che porterà Lynch ad elaborare la mostruosità non solo a livello inconscio e personale, ma anche a livello fisico come in The Elephant Man, un uomo deforme in lotta più con il mondo "normale" che lo circonda che con se stesso.
Precursore dei temi più tipicamente fantascientifci (anche qui figurano mostri precursori di Alien), alcuni hanno individuato in Eraserhead una nota di surrealismo per la facilità con cui sogno e realtà si mescolano divenendo un tutt'uno; i cult movie horror della storia del cinema contemporaneo partono dal bianco e nero di Lynch.