"è assolutamente evidente che l'arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV"
Woody Allen

Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico.
Jean-Luc Godard

Wednesday, April 23, 2014

Only Lovers Left Alive


Review: Only Lovers Left Alive
Jim Jarmusch parla di un'umanità in declino facendo un insolito uso del tema del vampirismo. Fino ad oggi metafora di desideri inconsci da appagare che portano l'uomo ad allontanarsi dalla sua stessa natura limitata (cfr. Dracula di Bram Stoker), il vampirismo in Only Lovers Left Alive diventa una condizione che nobilita l'animo e l'intelletto dei protagonisti; sono Eve, Adam e Kit i vampiri che fungono da custodi della sapienza accumulata nei secoli dall'uomo, apostrofato ora come zombie.
In questa prospettiva capovolta in cui lo zombie senza vita nè intenzioni è l'essere umano amorfo, indifferente e assuefatto dai vizi, il regista dà una sua chiave pessimistica di lettura: l'uomo non conosce che il degrado e da ciò che ha creato verrà distrutto. Chi può conservare e comprendere la purezza dell'ingegno umano è una creatura borderline, che vive nascosta ed emarginata, che quasi non si sente umana perchè differisce da quelli che sono i parametri di riferimento; è un vampiro, ovvero un uomo che si sente diverso dal resto del mondo.
Tuttavia nemmeno Jarmusch fornisce una soluzione al problema della decadenza dell'essere umano: la storia di Eve e Adam rimane fine a se stessa, senza risvolti consistenti, chiusa in un confine impenetrabile allo spettatore. Il regista non ci coinvolge a pieno nella vicenda, rende i personaggi impenetrabili, contriti in una rabbia nota solo a loro, non sviluppando di per sè valide motivazioni che spingano anche il pubblico ad empatizzare col loro malessere.  Non basta sentire sparsa qua e là nei dialoghi la parola "zombie" come insulto rivolto agli umani, o il rancore di Kit verso Shakespeare, o ancora le invocazioni di Adam all'Epoca d'Oro.
Il film rimane una metafora impenetrabile, difficoltosa da comprendere e da sciogliere, in cui i personaggi sembrano sfuggevoli e la trama poco funzionale al messaggio che il regista vuole trasmettere. E' un film che non ha voluto scoprirsi e farsi scoprire, chiuso in se stesso in una critica poco costruttiva che non dà soluzioni al problema, statico nei tempi registici e nella narrazione. Lo stile di Jarmusch prevede tale staticità grazie all'uso di lunghi piani sequenze e ad ambientazioni sempre uguali a se stesse, poco mutevoli, che riflettono l'incapacità dei suoi personaggi di evolversi (in questo caso la stanza di Adam e i vicoli di Tangeri).
Tuttavia una scelta stilistica simile portata all'estremo, come in questo caso, può delineare personaggi con profili accidiosi segnati dall'indifferenza e quindi controproduttivi al senso del film. Il finale è tutta una dichiarazione d'intenti: Eve e Adam sono costretti a ritornare a "cacciare gli esseri umani" come nell'antichità, abbandonando il loro artistico savoir faire. L'uomo non potrà mai liberarsi del suo lato animale, quindi sarà sempre destinato al fallimento. Jim Jarmusch cerca l'innovazione, ma risulta essere poco incisivo.














Monday, April 7, 2014

Interview: fashion in the flick

Milena Canonero is the most famous costume designer: she has won three Oscar in movies such as Marie Antoniette, Barry Lyndon and Chariots of fire. Here is the Cannonero's interview about is latest film as costume designer in The Grand Budapest Hotel by Wes Anderson.
Here is the interview from "Vanity Fair":
“Working with Wes is always different because he takes me to different places and different characters and situations, but however different they may be, he creates a world of his own that is very specific to him,” she says. “The more I work for him the more I see he is crystalizing his cinematic style to go with it. One has to immerse oneself into it, his world, which at first seems so light, but has many layers. Some people may not get his movies, but I do and I love them.” However, the work of Zweig (writer of The Grand Budapest Hotel book) wasn’t necessarily handy in realizing the costumes, says Canonero. “It was useful not really for the costumes, but for the atmosphere and the surroundings of Wes’s story that Zweig, an Austrian disillusioned writer, was an inspiration for me.” 
To capture the fictional, candy-colored Eastern European Republic of Zubrowka in between World War I and World War II, Canonero took a holistic approach. 
“We had meetings and also exchanges of ideas and references not just for the costumes themselves, but the total look of the principal characters from head to toe,” she says. Photographers like Man Ray and George Hurrell, and painters like Gustav Klimt, Kees van Dongen, Tamara de Lempicka, and George Grosz served as inspiration points. “One also is stimulated by looking not only at the real people of that time, but also at other images and literature that are unrelated to the period and the setting of the story,” she says. “The look of each actor has to have its raison d’être.” For instance, Tilda Swinton’s Madame D.’s 1930s Klimt-esque coat and Willem Dafoe’s Jopling's Prada leather trench were distingushable pieces for their characters (Prada also happened to design the 21-piece luggage set for Madame D. and Ralph Fiennes’s Monsieur Gustave.) For Gustave that translated to the color of his uniforms. “It gave a nice twist to liveries that would have otherwise been rather predictable,” she says. “Ralph is not only a great actor, but also a director, and he is also extremely particular and detail-oriented like Wes and me. A triumvirate that needs to be satisfied.”